“Dopo la curva spiana”
Me lo sono sentita ripetere centinaia di volte dai miei compagni di pedalate, soprattutto quando ero agli inizi. Lo dicevano ogni volta che davo segni di cedimento.
Quasi mai ho visto spianare la strada dopo la curva e se alcune volte pensare che poi spianasse mi aiutava ad arrivare almeno alla curva, altre volte vedere che dopo la curva la salita si faceva ancora più ripida, mi ha letteralmente distrutto.
La fatica non è solo una questione fisica.
La percezione dello sforzo ha due livelli: come ci sentiamo e cosa pensiamo di quello che sentiamo. Il primo riguarda i parametri fisiologici, il secondo riguarda le emozioni, i pensieri, le aspettative.
Pensiamo che la fatica sia tutto fisiologia: acido lattico, VO2max, soglia anaerobica. Eppure, la mente ha un ruolo molto più grande di quanto immaginiamo.
Quello che pensiamo influenza la percezione di fatica
Nel 2005, Alan St Clair Gibson e colleghi misero alla prova questo concetto con uno studio su 16 corridori. L’obiettivo era capire quanto le aspettative influenzano la percezione della fatica.
Hanno fatto correre i partecipanti su un tapis roulant in tre condizioni diverse: una in cui sapevano esattamente quanto sarebbe durata la corsa, una in cui non lo sapevano affatto e una in cui pensavano che fosse finita, ma veniva prolungata a sorpresa.
Coloro a cui era stato chiesto di correre 10 minuti e poi la loro corsa veniva prolungata a sorpresa di altri 10 minuti, sentivano maggiormente la fatica anche se i loro parametri fisiologici non erano affatto cambiati.
Per i corridori che non sapevano quanto ancora dovevano correre o per coloro ai quali la corsa veniva “allungata a sorpresa” sul finale, la percezione dello sforzo aumentava significativamente. Si sentivano più stanchi e più demoralizzati anche se a livello fisiologico non cambiava nulla.
Non è che si sentissero peggio, semplicemente sviluppavano un atteggiamento negativo verso come si sentivano.
Quello che mettiamo in atto ogni volta che ci troviamo di fronte ad uno stimolo doloroso come la fatica o l’indolenzimento muscolare, non è che un pensiero anticipatorio: il nostro cervello tende ad anticipare quello che succederà dopo e il tipo si scenario che disegna determinerà come noi reagiamo al dolore e alla fatica.
Soppressione o accettazione
In quali di questi dialoghi interiori ti riconosci?
“Devo smettere di pensare alla fatica. Non esiste.”
“Sì, sto facendo fatica. È normale, fa parte del percorso.”
“Non pensarci. Non è niente. Ignora il dolore. Vai avanti e basta.”
”Sto faticando. È normale, sono qui anche per questo. Posso restare con questa sensazione, fa parte del gioco”
I dialoghi 1 e 3 riflettono una strategia di soppressione: tentare di ignorare, evitare, negare il dolore. Può funzionare nel breve termine, ma alla lunga aumenta la percezione di disagio e stress.
I dialoghi 2 e 4 si basano sull’accettazione: riconoscere la fatica come parte dell’esperienza. Qui il dolore non è un nemico da combattere, ma qualcosa con cui si può stare. E quando il corpo smette di combattere, spesso si rilassa. Anche se il dolore rimane, cambia il modo in cui lo viviamo. Il dolore si normalizza e diventa un compagno di viaggio.
L’accettazione costruisce flessibilità psicologica, mentre la soppressione rischia di rafforzare la lotta interna col dolore, aumentando il malessere.
La fatica dipende da cosa credi
La fatica non è solo un fatto muscolare, ma un’esperienza soggettiva modulata da ciò che credi e da come reagisci.
Nel mondo dell’endurance, questo è un dettaglio che fa la differenza. Perché se impari a gestire le tue aspettative, a negoziare mentalmente con la fatica, puoi cambiare il modo in cui il corpo la percepisce.
Ed è qui che il lavoro mentale si intreccia con l’allenamento fisico.
Ogni nostro movimento muscolare, a parte le azioni riflesse, viene eseguito con un atto di volontà consapevole. Ogni volta che azioniamo un muscolo decidiamo la quantità di impegno che vogliamo investire in quell’azione. Ogni volta che puntiamo al traguardo, decidiamo continuamente il ritmo adeguato da tenere, decidiamo se rallentare o fermarci, secondo le nostre sensazioni e le nostre credenze.
Questo meccanismo si chiama regolazione anticipatoria e funziona regolando i nostri sforzi in base alla nostra percezione della fatica, alla nostra disposizione a sentirci a disagio (la motivazione) e alle nostre esperienze passate.
La percezione dello sforzo è fluttuante: a volte ci sentiamo sopraffatti dal dolore, altre volte ci sentiamo di poter superare la sofferenza.
Sempre, però, speriamo che domani o la prossima gara saranno più facili ed è facile perdere la percezione di quanto possa essere dura una gara.
Se abituarsi allo sforzo è una cosa positiva, è importante ricordarsi che questa tolleranza va adeguatamente e costantemente rinforzata.
Per questo, invece di raccontarci che “dopo la curva spiana”, forse è più utile prepararci all’idea che dopo la curva ci sarà ancora salita e magari anche vento contro, perche è un modo più efficace di regolare la nostra anticipazione della fatica ed essere maggiormente preparati al disagio che dovremmo affrontare.
E se poi spiana davvero, meglio!
Cosa faccio quando non corro 📚🎵
Consigli di lettura e ascolto
Elogio dell'ignoranza e dell'errore (Lo avevo letto mesi fa, ma
me lo ha rimesso in mente e l’ho riletto, trovandoci spunti nuovi)Quanto dannatamente lo vuoi? dove Matt Fitzgerald esplora come la forza mentale e il desiderio profondo siano le vere chiavi per superare i limiti fisici.
“Il mio equilibrio passa per una corsa”, la puntata 25 del podcast Run Within con Martina Cumerlato
Sono contento di averti fatto tornare in mente un bel libro. :-) bellissima newsletter grazid
Non spiana mai per davvero, me lo hanno promesso mille volte sui sentieri di montagna. Quando non c'è più salita, è perché c'è una discesa spaccaginocchia.