Eppure sbaglio ancora
L’ascolto del corpo è un esercizio quotidiano e non si finisce mai di impararlo.
Una fatica sottile, costante, che non se ne andava. Pensavo fossero soltanto i postumi della polmonite di mesi fa e dalla cura antibiotica che ho dovuto fare, ma nonostante il riposo, non riuscivo a rimettermi in piedi davvero.
Il respiro corto, le gambe vuote, il cuore stanco.
Poi, questa settimana, sono rientrata in Italia ed ho scoperto di avere un’anemia.
Il corpo mi stava parlando da un po’. Forse da molto prima che mi fermassi.
Quante volte ho tirato dritto, ignorando i segnali? Quante volte ho confuso il “non mollare” con il “non ascoltare”?
Il corpo parlava già
Se penso ai mesi precedenti, rivedo tutti i segnali a cui non ho dato peso: un giorno la frequenza cardiaca che saliva troppo in fretta, il fiato che mancava su pendenze dolci, una stanchezza che non sembrava semplicemente legata agli allenamenti. Li ho interpretati come “giornate no”, “manca il carburante”, “basta dormire meglio stanotte”.
Quanta energia sprecata a convincermi che fosse tutto normale, che bastava un caffè in più, qualche ora di sonno e poi sarei ripartita come prima.
Nella cultura della corsa, che anch’io contribuisco a creare, la fatica trasversale viene spesso idealizzata. Conta correre, spingere, arrivare fino a quando il corpo grida “Basta”. È una forma di orgoglio: se ti fermi prima, hai perso. Se non sei stanco, allora non hai fatto abbastanza.
Cosa succede, però, quando quel segnale di stanchezza è diverso? Quando non è il “dolore buono” - quello che arriva alla fine di una lunga progressione in salita - ma è una fatica che si insinua costante, come un’ombra che non ti abbandona. Anche quando sali le scale di casa o cammini per strada con le buste della spesa.
Sto imparando (sempre c’è una lezione da imparare) che c’è una differenza sottile, ma cruciale, tra resistenza sana e resistenza cieca. Resistere, nella corsa e nella vita, significa spesso sapere quando spingere e quando fermarsi; capire quando la stanchezza è fisiologica e quando è un campanello d’allarme.
Oggi mi rendo conto che la mia determinazione si è trasformata in ostinazione. Continuavo ad alzarmi presto per partire sul sentiero, a cercare strappi e dislivelli, a spingere sui fartlek, anche se dentro sentivo il fiato affannato. Ogni volta cercavo una giustificazione: “Ieri non ho recuperato abbastanza”, “forse è solo un periodo di calo, succede ogni primavera”, “basta un po’ di caffeina e poi sono a posto.”
Nel frattempo, i segnali si accumulavano: il sonno leggero, la fame da lupi anche dopo aver mangiato e la mia concentrazione che spariva, rendendo tutto difficilissimo, anche la vita quotidiana.
Ascoltare è un atto di coraggio
Quando ho ritirato l’emocromo, ho avvertito un misto di sollievo e di rabbia. Sollievo perché, finalmente, c’era una spiegazione. Rabbia perché, nel frattempo, mi sono spinta oltre ogni ragionevolezza, senza capire che il mio corpo era già in emergenza.
Il corpo, in fondo, non mente mai. Ti manda messaggi chiari, solo che a volte preferiamo non leggerli.
In un mondo in cui la corsa è simbolo di potenza interiore, ammettere di avere un limite suona come un cedimento.
Lasciare spazio alla vulnerabilità non è facile, ma adesso capisco quanto sia essenziale.
Adesso sto ripensando il mio rapporto con l’allenamento: ho messo in pausa la corsa e mi dedicherò alle sessioni di forza in palestra. Darò tregua al mio corpo, mantenendo il movimento.
Sto imparando che la vera forza non si misura solo in quanti chilometri riesci a incatenare, ma in quanta attenzione poni ai segnali che arrivano.
Sto facendo il mio bagno di umiltà riconoscendo che il mio corpo può essere più fragile della mia mente e che la mente stessa, per correre bene, ha bisogno di un corpo ascoltato e rispettato.
Il corpo non mente mai
E tu? Quante volte hai confuso il “non mollare” con il “non ascoltare”? Quante volte hai pensato che la fatica fosse un biglietto di vittoria anziché un allarme da decifrare?
La prossima volta che senti le gambe vuote o il respiro corto, prova a fermarti anche solo per un istante e chiederti: “Che cosa mi sta dicendo il mio corpo, oggi?”
Può essere davvero una liberazione capire che non serve mostrarsi sempre forti e ad ogni costo. Avere il coraggio di abbassare le aspettative verso noi stessi. Ascoltarsi e cambiare i propri piani di allenamento, fare un riposo in più e qualche chilometro in meno.
Correre ti insegna ad ascoltare (il corpo, il terreno, il battito, il respiro). Funziona così anche la vita: si cresce non accelerando, ma fermandosi ad ascoltare ciò che di abbiamo ignorato fino a quel momento.
Saper sentire davvero richiede più coraggio che resistere.
PS. Nelle prossime settimane potrei latitare un po’. Dopo un anno e mezzo sono tornata a casa e voglio godermi gli affetti veri, quelli in carne e ossa. Ho voglia di tanti abbracci e di poche notifiche. Quindi se sparisco, non mi ha rapita la montagna. Sto solo facendo il pieno di vita analogica. Ho bisogno di vedere volti senza che siano dentro uno schermo.
Penso che forse la cosa più importante che mi ha insegnato la corsa è che niente è appreso in modo definitivo, è sempre un processo in corso.
Riprenditi presto e riprenditi la strada <3
Ciao Laura, mi spiace apprendere che non stai bene e ti capisco quando parli di dolore, quel dolore che si insuna fino alla testa ma nonostante ciò vuoi allenarti. Hai ragione, non siamo invincibili e spesso e volentieri ce lo dimentichiamo. Però questa spinta a combattere la fragilità però a volte è anche la nostra forza, è quella spinta che ci aiuta a rialzarci nonostante la caduta, quella che ci fa uscire di casa al mattino presto nonostante il sonno; senza non saremmo le persone che siamo, senza non correremmo a perdifiato nei sentieri.
Non ti dico altro, so già che tornerai più forte di prima (in tutto quello che fai, nella corsa come nella scrittura)
Ti abbraccio e buon rientro a casa ❤️