Quando ho iniziato a vivere davvero
Come intuito e (in)coscienza possono guidare il cambiamento
Esattamente un anno fa, in questa settimana, stavo comunicando le mie dimissioni all’azienda dove ho lavorato per 15 anni (quasi la metà della mia vita).
Non l’ho fatto sbattendo la porta e nemmeno perché volessi scappare, l’ho fatto con la stessa sensazione di entusiasmo e paura con cui si lascia la casa in cui siamo nati, andando a vivere da soli per costruirsi la propria strada.
Lì dentro ho imparato tutto sul mio lavoro di project manager e sul lavoro in generale. In quell’azienda, in cui mi sentivo davvero un po’ come in famiglia, ho conosciuto persone straordinarie e stretto legami che porterò con me tutta la vita. Ho riso, ho pianto, ho provato enormi soddisfazioni ed enormi delusioni, ma quello che mi ha convinto ad andarmene non aveva niente a che vedere col lavoro, riguardava solo me.
Ad un certo punto mi è esplosa dentro la consapevolezza che dove ero non avrei potuto imparare ancora, non sarei potuta evolvere e sarei rimasta in una situazione stagnante, dove non ci sono rischi da correre, ma nemmeno cambiamenti che potessero regalarmi stupore.
Sono riuscita a prendere questa decisione pensando al contrario del senso comune: ho quasi 40 anni e ho accumulato sufficiente esperienza per poter cambiare strada.
Non mi sono preoccupata di quello che avrebbero pensato gli altri perché la necessità di cambiare era talmente forte che mi è sembrata l’unica via possibile.
“Quando la paura di restare uguali a se stessi supera la paura del cambiamento, quello è il momento in cui cambiamo.”
Qualche mese prima di fare questa scelta avevo fatto un incidente in macchina: mi ribaltai su una strada di campagna rimanendo intrappolata al buio da sola per diverso tempo, dentro la macchina distrutta, ma uscendone indenne e con una bottiglia di vino in mano (stavo andando a cena a casa di amici).
A parte lo shock iniziale e la disperazione per la macchina appena finita di pagare dopo anni di rate, a distanza di qualche giorno ebbi una di quelle esperienze che in psicologia vengono chiamate “esperienze emozionali correttive”.
E’ un’esperienza concreta che ristruttura il nostro modo di vedere e percepire le cose che poi ci porta ad agire in modo diverso.
Le esperienze concrete in grado di modificare la percezione della realtà da parte di un individuo, provocano un cambiamento a livello emotivo, cognitivo e comportamentale. (Nardone, Portelli, 2015).
Questa esperienza si collocava in un periodo per me abbastanza positivo, mi sentivo finalmente uscita da uno dei buchi più profondi e fetidi in cui fossi mai entrata. Per quasi un anno mi ero nutrita solo di dolore e autocommiserazione per una lunga relazione mandata in fumo, nessuna prospettiva e nessun sogno nel cassetto da far uscire. Un vuoto incredibile e incolmabile, una non esistenza in cui nulla aveva senso e nulla era in grado di darmi uno scopo.
La felicità mi sembrava una menzogna che mi veniva sventolata davanti dai post Instagram altrui. Una festa a cui io non ero invitata e se anche mi avessero invitato, non avrei avuto le forze per andare.
Poi è arrivata la corsa, lo stare all’aria aperta, il contatto con la natura. Sono arrivati anche i primi infortuni che mi hanno insegnato la resilienza e così la preparazione del mio primo triathlon. Stavo riscoprendo la serenità, a piccoli passi, senza quasi rendermi conto di quello che stavo costruendo, ovvero un senso.
Una delle cose che ha più potere nello spingerci al fondo è la mancanza di significato nella vita, l’assenza di uno scopo, di un qualcosa per cui impegnarsi. Un modo per trovare significato nella vita è farsi le domande, quelle pesanti: “Io cosa voglio fare?” “Cosa mi rende sereno?” “Cosa volevo diventare quando ero piccolo?” “Quali erano i miei sogni?”.
Ora, noi pensiamo che il pensiero venga prima di qualunque cosa e che quindi basti azionare la razionalità per rispondere a queste domande. Oggi le neuroscienze, però, ci dimostrano concretamente che oltre l’80% delle nostre attività mentali si svolge sotto il livello della nostra coscienza.
La nostra mente è in grado di reagire in millesimi di secondo ad un stimolo. Quando perdiamo l’equilibrio inciampando o quando ritraiamo la mano che sta toccando qualcosa che scotta o ancora quando rabbrividiamo di fronte a qualcosa che ci disgusta o ci fa paura, le nostre reazioni meccaniche ed istintive riescono ad agire molto prima del pensiero.
L’azione precede il pensiero.
Per imparare a gestire il nostro modo di agire, quindi, dobbiamo imparare a gestire gli stimoli nel modo più funzionale possibile.
Una delle modalità più disfunzionali per gestire il cambiamento è usare la coscienza, perché è proprio lì che risiedono le maggiori resistenze al cambiamento.
La coscienza è il nucleo del mantenimento dell’omeostasi, ovvero lo stato di equilibrio energetico e la nostra mente si è evoluta per essere sempre più brava a mantenere questo stato di equilibrio difendendoci dai possibili rischi energetici connessi al cambiamento.
Se però guardiamo gli atleti, soprattutto quelli bravi, quello che vediamo è che sono in grado di rispondere in millesimi di secondo in modo apparentemente incosciente. Quando Sinner risponde al rovescio di un avversario non lo fa pensando, perché se pensasse arriverebbe in ritardo, ma risponde con un meccanismo che citando Nardone è di educata incoscienza: “un addestramento reiterato che porta ad avere una consapevolezza operativa che non è coscienza, é presenza nell’atto, è agire, ma non cosciente”
Tornando quindi alle mie domande esistenziali, ( Io cosa voglio fare?” “Cosa mi rende sereno?” “Cosa volevo diventare quando ero piccolo?” “Quali erano i miei sogni?”) mi rendo conto oggi, col senno di poi, che non ho trovato una risposta cosciente, non mi sono messa ad analizzare possibili scenari o a mettere per iscritto pro e contro delle mie scelte, non mi sono nemmeno assicurata di sapere dove volessi andare. Solo di una cosa ero totalmente certa: non potevo rimanere dove ero, non potevo restare ferma ad aspettare che qualche avvenimento esterno decidesse per me il corso della mia vita.
Mai in vita mia sono stata tanto sicura di qualcosa e questa sicurezza non mi veniva dal pensiero cosciente, ma dalla mia “educata incoscienza”.
Quella mia esperienza emozionale correttiva dell’incidente in macchina, ha prodotto un “click” nella mia mente e mi ha improvvisamente aperto gli occhi sulla necessità di lasciar andare il controllo per poter vivere bene.
Ho passato 38 anni della mia vita ad ossessionarmi per controllare tutto, a scegliere chirurgicamente ognuna delle mie traiettorie restando impantanata nel mio pensare troppo che il più delle volte mi ha condotto alla paralisi, all’inazione.
Ci ossessioniamo per il passato e ci preoccupiamo per il futuro, illudendoci di poter avere il controllo, quando l’unica cosa che possiamo controllare siamo noi stessi: possiamo scegliere come e con chi passiamo il nostro tempo, cosa leggiamo, chi seguiamo, cosa mangiamo. Possiamo controllare i nostri pensieri e quando un pensiero negativo arriva, possiamo decidere di lasciarlo andare invece di lasciarci paralizzare.
Per la prima volta nella mia vita, decidendo di lasciare il lavoro e comprando un biglietto solo andata per un paese visitato solo 10 giorni per vacanza, in cui si parla una lingua che non conoscevo, ho lasciato andare totalmente il controllo avendo fede che tutto sarebbe andato come doveva andare.
Mi sono ritrovata a pensare, per la prima volta, che tutto succede per una ragione e il mio incidente in macchina era una di quelle cose alle quali sul momento ho dato l’etichetta di sciagura, ma che poi si è rivelata essere accaduta per una ragione. La ragione era spingermi ad agire.
Per per la prima volta ho sentito che suono avesse la mia vocina interiore che avevo snobbato per troppi anni sovrastandola con Il rumore della miriade di informazioni, opinioni e paure che mi circondavano.
Chiamatelo come volete: istinto, intuito, anima; quella voce che viene dalle viscere e che sa cosa è meglio per voi. Quasi sempre abbiamo troppo rumore intorno e dentro per poterla ascoltare. Bisogna imparare a circondarsi di silenzio, ogni tanto, per ascoltarsi nel profondo, ricordandoci che la mente può mentire e se la si ascolta troppo si finisce per vivere una non vita, paralizzati dal pensare troppo o dalla paura.
Qualcuno, nella mia scelta ci vede molto coraggio, io invece mi sento molto più curiosa che coraggiosa e sono entusiasta di vedere dove la vita mi porterà.
So che la terra mi tremerà sotto i piedi altre centinaia di volte (mi sono già guadagnata l’appellativo spagnolo di “culo inquieto”) e so che cadrò tante volte, avrò paura, piangerò, mi affezionerò a persone che poi perderò, mi farò male, ma almeno saprò di averci provato. Avrò rimorsi, ma spero nessun rimpianto.
Prima la bici e poi la corsa, mi hanno insegnato a ripetermi “coraggio, solo un altro chilometro”, ogni volta che sento di voler cedere.
“Coraggio, solo un’altro passo” è il mio mantra e me lo ripeto ogni volta che la vita mi mette alla prova, ogni volta che mi sembra di non farcela.
Grazie a questo mantra, posso dire essere arrivata in cima a vette altissime, che mi hanno offerto panorami inaspettati (in senso letterale e metaforico).
Una volta in cima, però, sapete cosa è successo?
“una volta arrivato in cima non vai da nessuna parte, puoi solo scendere” (Marco Corona)
Si perché la felicità, così come quella bella sensazione di tagliare il traguardo di una gara, sono stati transitori e la vera soddisfazione sta nel rendersi conto che il senso risiede tutto nella fatica fatta per raggiungerla quella meta. Sta in tutte quelle cose che abbiamo sbagliato, imparato e perfezionato lungo il cammino.
Quando facevo danza classica, il punto non era eseguire un numero di passi tale da arrivare in fondo alla melodia, il punto era starci dentro a quella melodia, sentirla nel corpo, interpretarla, interagire con gli altri corpi in un dialogo continuo tra intuito, spazio e tempo.
Lo stesso dovremmo fare con la nostra vita, scegliere di ballarla ogni giorno, con grazia e assecondando la melodia.
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Non mi ha chiarito le idee ma mi ha fatto vibrare qualcosa dentro. Cosa? Ancora non lo so. Grazie
Quante “cose” condividiamo e quanto questo mi lascia incredula.
E poi comunque, quando un senso cominci a darlo, tutto scorre secondo quel senso, non senza difficoltà, ma continua.