Correvo da sola, nascondendomi per mesi perché non era permesso. Solo negli sporadici periodi di allentamento delle restrizioni avevo la benedizione di correre con Lorenzo, il mio collega di lavoro molto più allenato e forte di me che senza rendersi conto mi ha costretto a sforzi sovrumani per la mia ansia di non rallentarlo troppo (Grazie Lorenzo!).
Era febbraio 2021 e già mi stavo lasciando alle spalle il 2020 con i suoi stravolgimenti.
Rientrai in casa dopo un allenamento con Lorenzo, stremata e con la faccia fucsia per la fatica e in pieno sballo da dopamina ed endorfina. Mi metto al computer e l’algoritmo che controlla le pubblicità su Facebook sa benissimo cosa deve fare: mentre scorro distrattamente il feed, la mia attenzione cade sulla locandina del Trail Sacred Forest 2021.
Correvo da poco e la competizione nemmeno sfiorava i miei pensieri, però scelsi di iscrivermi per motivi che nulla avevano a che vedere con la volontà di gareggiare: fuori c’era un mondo di gente velocissima e allenatissima e io ancora non avevo nemmeno un paio di scarpe decenti!
In quel 2020 così dirompente se n’era andata una persona a me molto cara che aveva un legame particolare con il Parco delle Foreste Casentinesi dove si sarebbe svolta la gara e partecipare a quel trail lo sentii un modo personale di sentirla ancora vicina a me.
La mattina del 23 maggio la mia sveglia suona alle 5, fuori è molto freddo per essere maggio e in montagna farà ancora più freddo. Mi metto una vecchia maglia termica riciclata dal mio abbigliamento per la bici, pantaloni low cost e indosso delle scarpe comprate per l'occasione a metà prezzo, ma che oggi non indosserei nemmeno per andare a funghi.
Faccio colazione e parto per raggiungere Badia Prataglia con la mia solita playlist compagna di vita sparata a tutto volume. Cantando per quasi tutto il viaggio raggiungo la partenza. Niente mi preoccupa e voglio solo provare a fare una gara per vedere come sono forti quelli che corrono davvero, voglio imparare da loro.
Qualche minuto prima delle 9 siamo tutti schierati alla partenza, si parte a blocchi di 10 persone alla volta con qualche secondo di distanza l’uno dall’altro, indossando la mascherina perché ancora il Covid aleggia e costringe.
Indosso le mie cuffie e faccio partire la musica (ancora oggi mi chiedo se non fossi fuori regolamento, ma in quel momento, ignara di qualsiasi regola di gara a me sembrava normale).
Io sono nell’ultimo scaglione, ovviamente e parto dopo che già sono partiti tutti quelli che corrono davvero. La partenza è in salita, ma sento che posso correre bene e mentre salgo tra la nebbia comincio a superare qualcuno che sta camminando.
Camminare? Pensai che non si sentissero bene (non avevo la più pallida idea di cosa fosse una gara di trail running) e continuai a correre nonostante la salita avesse portato il mio cuore a battere sopra la soglia di tollerabilità e mi venisse da vomitare. Ero abituata a quella sensazione, quando correvo con Lorenzo mi sentivo sempre così: ero fermamente convinta che così era come ci si dovesse sempre sentire quando si corre.
Passo il primo check-point senza fermarmi e vedo i volontari battere le mani al mio passaggio, mi dicono qualcosa ma non sento perché sto ascoltando la mia musica, ricambio con un sorriso e continuo la mia corsa lanciandomi in discesa tra fango, nebbia e rocce con le suole quasi lisce delle mie scarpe, ma senza la minima paura, totalmente incosciente di quello che stavo facendo come una bambina sullo scivolo (non ho più corso una discesa a quella velocità, perché oggi sono troppo consapevole, penso molto e pensare mi impedisce di lasciarmi assorbire dal puro piacere dell’azione).
Sono sola e non vedo nessuno né davanti né dietro di me, ma ci sono le fettucce arancioni a darmi la sicurezza di essere sulla strada giusta: non mi sono persa.
Nell’ultima salita, il mio cuore sembra essersi ormai abituato a quella sofferenza e in cima alla salita passo un altro check-point. Questa volta non solo non sento quello che mi dicono, ma nemmeno mi soffermo a guardare che stanno applaudendo perché sono completamente assorbita da quello che faccio, non so controllando né le mie gambe né il mio respiro, ho smesso di pensare e il movimento sta fluendo naturale dagli schemi motori impressi nella mia mente. Il tempo sembra non esistere e adesso non sento più neanche la fatica e la nausea. Sono in pieno stato di “flow”, ma ancora non potevo saperlo.
L’ultima discesa la percorro ridendo come una bambina, continuando a seguire le fettucce arancioni e all’arrivo vengo accolta da un sacco di applausi e da gente che mi fa un sacco di complimenti.
Pensai che l’ambiente delle gare fosse molto bello e che era bellissimo che tutti si complimentassero con chiunque arrivasse.
Dopo la gara, felice e inebriata, mangio qualcosa e inizio a camminare verso la mia macchina per tornare a casa. Ho quasi raggiunto il parcheggio quando mi sento chiamare:
“Laura, dove vai?”
“Torno a casa”
“Ti hanno chiamato per la premiazione ma tu non c’eri”
“Quale premiazione?”
“Come quale premiazione? Hai vinto la gara”
Rimasi senza parole e cominciai a ridere da sola: la gente all’arrivo si complimentava perché avevo vinto e quello che cercavano di dirmi ai check-point, ma che io non avevo sentito, era che fossi in testa.

Ero rimasta talmente focalizzata sull’azione per tutta la gara che tutte le interferenze esterne si erano annullate, avevo raggiunto quello che in psicologia si chiama lo “stato di flow” , ovvero quello stato mentale in cui il cervello è talmente impegnato in un’azione che esclude tutte le interferenze esterne.
Lo stato di flow
In ogni momento della nostra esistenza il nostro cervello riceve una marea di informazioni e dato che non può gestirle tutte contemporaneamente, la nostra mente decide di volta in volta su cosa concentrare attenzione ed energie.
Quando si è nello stato di flow si è talmente immersi nell’azione che tutta la nostra attenzione viene concentrata su quel processo e non c’è spazio per altri pensieri, nemmeno per quel fastidioso e costante giudizio che continuamente esprimiamo su noi stessi e su quello che stiamo facendo. Così mettiamo a tacere la vocina che spesso riecheggia nella nostra testa con la quale ci diamo giudizi come: “stai correndo male (o bene), “i tuoi piedi non si alzano abbastanza”, “hai sprecato troppe energie all’inizio”, che ci distraggono da quello che stiamo facendo e rendono meno fluida la nostra azione.
Non esiste una ricetta magica per raggiungere questo stato ideale e se lo si ricerca ardentemente diventa ancora più difficile raggiungerlo.
Esistono però dei presupposti per facilitare l’immersione nello stato di flow e il primo è quello di essere coinvolti in un'attività che ci coinvolga emotivamente e fisicamente, che sia appagante e non sia né troppo facile né troppo difficile per noi. Se infatti il compito è troppo facile possono scattare la noia e l’apatia, se invece è troppo difficile proveremo preoccupazione e ansia per raggiungerlo o un eccessivo livello di sforzo mentale.
Nella vita non possiamo sempre fare quello che ci piace e nemmeno interfacciarci solo con compiti che siano in esatto equilibrio tra il "né troppo facile, né troppo difficile”, ma possiamo allenarci a raggiungere questo stato, possiamo imparare a pensare meno, a zittire il dialogo interiore che costantemente è in corso nella nostra mente cercando di agire con il “pilota automatico” anche nelle situazioni che possono essere meno appaganti o più frustranti per noi.
Raggiungere lo stato di flow non ha nulla a che vedere con l’autostima e la fiducia in se stessi, ma si tratta invece di non pensare, non giudicarci e di lasciar fluire l’azione che si sta compiendo dai propri schemi motori.
Quindi: lasciati andare e svuota la mente!
Se mi hai letto fin qui spero di essere stata capace di darti qualche spunto per riflettere su te stesso e su come far emergere le tue migliori potenzialità.
Siamo tutti alla continua ricerca della serenità, ma nessuno di noi possiede le indicazioni per raggiungere la metà, quello che spero di fare è aiutarti a goderti il tuo cammino di ricerca.
Se vuoi sapere di più su chi sono e cosa faccio, qui ho provato a parlare di me.
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